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da Corriere Romagna 29 marzo 2008:

Piersanti: la natura e la solitudine

Ogni libro di poesia può dirsi davvero compiuto solo quando trova nel titolo la sua immagine più precisa e densa di significato. Così accade senz’altro per L’albero delle nebbie, la nuova, molto riuscita raccolta di versi del poeta urbinate Umberto Piersanti (Einaudi, 2008), cantore di tempi e luoghi perduti, delle pulsazioni intensissime di un piccolo epos familiare sempre più sprofondato nell’ombra degli anni, e poi di una natura forte, misteriosa e piena d’incanto, sull’altipiano antico delle Cesane, le colline a sud-est di Urbino che sono per questo poeta il luogo della discendenza materna, della casa e della famiglia riunita, costellazione perfetta e inarrivabile che gli ha sempre indicato l’orientamento – davvero concedendolo come una grazia – sulle strade così travagliate e difficili della vita. E proprio l’albero delle nebbie appare come una metafora molto precisa del rapporto di Piersanti con questo suo mondo poetico, dove la priorità della natura, il senso di radicamento, la tenacia e la forza di ciò che comunque dura, piantato nella terra, s’intrecciano con la solitudine, l’insidia della dimenticanza, l’incertezza di un’apparizione che parrebbe sfumare dentro a una strana nebbia in cui ricordi e sogni quasi si confondono.
Da sempre in Piersanti la poesia accompagna, come nutrendosene, le stagioni della vita. Il suo gesto poetico è necessario, senza intellettualismi. Non nasce prima della realtà per andare poi, per così dire, a cercarla; ma le risponde, come per una contrasta ma inossidabile devozione. Come i suoi amati poeti classici, e latini in particolare, Piersanti avverte profondamente la sacralità di ciò che esiste, tant’è che ogni sua poesia nasce da una sorta di rinnovato trasalimento al cospetto della presenza del mondo, sia che si riveli in un momento privilegiato di bellezza e di pienezza creaturale, sia che s’imponga come il segno doloroso di una ferita. Credo che sia per onorare questa specie di patto fondamentale che la sua poesia non indulge mai al grigiore espressivo, ai registri piatti e prosasticamente impoveriti. Al contrario, Piersanti ama raccontare cantando, con una lingua elegante e fortemente musicale proprio perché intrisa di vita. Ecco: «e quel campo immenso / di giunchiglie, che attraverso / stretto alla mia sorella / per la mano, / in quel mattino rado e luminoso, / rado forse più del tulipano / che in un tempo remoto / cresceva solo e acceso / giù per il fosso». Dentro a questa possente ma sempre controllata onda elegiaca, si avverte subito la tradizione poetica che questo poeta ha definito come la propria: in profondità il suono dei classici, quindi i poeti che hanno cantato la natura con timore e venerazione, come simulacro del rapporto stesso dell’uomo con la realtà che è loro data: Tasso, Leopardi, la musica dei nomi precisi inventata da Pascoli, il richiamo della sensualità dannunziana, e poi, più vicino, Luzi, Volponi, Bertolucci.
Se c’è una cosa che colpisce nella poesia di Piersanti, questa è l’intensità con cui eventi, figure, presenze, apparizioni, vengono percepiti, tante volte in un raccordo fulmineo, non importa se per analogia o, più spesso, per disgiunzione, tra il presente e i giacimenti della memoria. Estrema intensità delle percezioni, desiderio e insieme paura, fortissima carica emotiva, al punto di riconoscersi sormontati, quasi schiantati dall’imporsi degli affioramenti della realtà: «s’era perso da tempo, / dagli anni più remoti / il fiordaliso, / e mi trasale il sangue / a quell’azzurro, / nessun fiore l’eguaglia / per la luce». Non c’è nulla di blandamente quotidiano in questa alta tensione. Anzi, accade proprio il contrario: in ogni rapporto del poeta con le cose è sempre messa in gioco una relazione fondamentale di realtà, un’intrisione con la totalità dell’essere, un sentimento complessivo dell’esistere, o ancor meglio dello stare al mondo. Per questo, credo, in Piersanti la particolarità riesce ad essere così carica d’energia, così esplosiva. Il poeta si mette in gioco ogni volta daccapo, in un contatto bruciante con l’esistenza che sembra garantirgli, come se la sua lingua poetica avesse una scaturigine immediatamente musicale, un’inesauribile freschezza di voce. Allo stesso modo, il legame coi luoghi persi (come dal titolo di una sua molto importante raccolta di poesie), le vicende diverse e sempre uguali, tra pienezza e abbandono, che si aggirano attorno all’antica casa del fosso, il ricordo dei lari e penati familiari, i tanti piccoli inselvamenti nella natura e insieme nella memoria, assumono sempre un carattere iniziatico, nel senso che si dispongono come la cifra intera di un destino, che è poi quello di chi sempre «affonda tra la neve, / sbaglia strada, / non c’è più un sentiero / che porta a casa».
Nell’Albero delle nebbie la tensione tra ritrovamento e perdita che è costitutiva della poesia di Piersanti, si fa più drammatica, sussultante, irregolare. Sembra sempre più difficile per il poeta ricondurre l’esistenza a un disegno certo, a una grammatica. Più che su vicende compiute, la poesia si costruisce ora come a strappi, per sequenze e immagini analogiche, tagliate con forza, ma proprio per questo tanto più incise e penetranti, memorabili, vorrei dire. Dietro, come nella zona d’ombra o nel controluce dei tanti luoghi edenici – macchie e conche perfette, radure e cerchie senza tempo – si avvertono sempre più le ferite e i segni dolenti del tempo presente: la vita che passa, passa e ancora passa, cose e persone amate che si perdono sempre più lontano, la solitudine, gli acciacchi e le cicatrici degli anni, la malattia del figlio Jacopo, figura sempre più autonoma e ricca di significati di questa poesia: «immune anche a quei segni / d’aria, fatti di niente, / che cerchiano tuo padre / per ogni strada, / il pegno che lui paga / alle folte parole, / alle fitte figure / che gli covano dentro / e vanno a fuoco».
Forse proprio per il loro carattere più irrelato e intermittente, le apparizioni di questa poesia appaiono sempre più come folgorazioni, come visioni e macchie di colore. Presenze, anzitutto, e irrefutabili, prodigiose, quasi, piuttosto che narrazioni e vicende organiche. Il traliccio del racconto rimane – l’infanzia, la guerra, le avventure nei boschi, la cronaca dei giorni del tempo presente – ma sulla sintassi s’impongono sempre più il segno e la verità anche prepotente delle immagini e degli incontri particolari. Questo libro, non a caso, è il più incendiato di colori tra gli ultimi di Piersanti: dagli azzurri e dai bianchi purissimi degli inverni della prima sezione, ai verdi e bruni autunnali, ai gialli, agli arancioni e al rosso sangue della terza e ultima. Il rosso, che è il vero colore di questo libro: il rosso della sassifraga e della brionia, del tulipano e dell’orchidea, del pruno e delle bacche; il rosso, più di tutto, dello scotano, l’albero che talora vince la nebbia, l’albero della poesia: «lì / si perdono foglie, / s’alzano grida, / ma uno scotano rosso / la trapassa, / e t’appartiene il filare / che più non vedi».

Roberto Galaverni

 
 
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