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da Umberto Piersanti il poeta dei luoghi persi:

TORNANDO ASSOLUTAMENTE A “I LUOGHI PERSI”
MANUEL COHEN

«la nostra storia è l’ultima vicenda / prima che torni l’autunno, venga l’inverno / era quel giorno l’ultimo che resta / di un’età favolosa quando vagavo / sempre tra i colli con nuove compagne / trasale il sangue nomade che teme / la tiepida dimora che l’attende / che resterà negli anni fissa e immota / e non la muta il tempo e le vicende».
(Dentro le alte nebbie, pp. 21-22)

I luoghi persi ( 1994) di Umberto Piersanti non è una raccolta di versi. È un’opera d’arte assoluta. È precipuamente un libro, nella sua natura più autentica, dal valore non relativo né correlativo, bensì assoluto. Potrà sembrare questo, di chi annota elementari riflessioni intorno a un libro, un argomentare o affermare poco avvertito o acritico: eppure, a sedici anni dalla sua apparizione, tornando a riaprirne le pagine, la lettura dei testi e la loro fruizione non risultano scalfite da segnali di cedimento o d’antan: perché questa è un’opera nel tempo, il cui gusto oltrepassa le mode e i respiri del momento, perché compiutamente è un libro che si sostiene da sé, senza zeppe o supporti ecolaici o à la page, senza l’ombra di una parola che rimarchi o rialluda a un qualche addentellato corrente o corrivo, una parola che si mostra avulsa da compromissioni, che non si affida a una pratica del prét-à-porter dell’ideologia letteraria, né tantomeno a una prassi manierista di citazioni o riuso, né infine, a una artificiosità linguistica da laboratorio, da qualsivoglia ‘ismo’ alchemico: aspetti questi, tendenze e posizioni, che Piersanti ha sempre bandito dalle sue frequentazioni di classici ( Dante, Tasso, Leopardi, Pascoli) e contemporanei ( Pavese, Pisolini, Luzi, Bertolucci). Sebbene sia stata scritta nell’ultimo quarto di secolo del Novecento, settima tappa di un percorso avviato nel 1966, I luoghi persi tuttavia si rivela assolutamente affrancata da ogni stile in voga, da ogni ipotesi, da ogni ipostasi o ipoteca, da ogni parola d’ordine di stampo novecentista: come se chi abbia scritto o seguito da partecipe e consapevole testimone le vicende umane, politiche, letterarie del proprio tempo, se ne sia comunque tenuto a ‘parte’, elaborandone pure le sconfitte. Come se, con un irredimibile collante di coerenza e specificità che lega idealmente e alla lettera, attraverso una serie di coordinate fondamentali che ne connotano l’assetto portante, I luoghi persi ai libri che l’autore ha scritto in precedenza e in seguito, il poeta abbia lungamente frequentato e predilettouna locazione eccentrica, laterale, periferica. Con molta probabilità, confermata anche dai giudizi dei migliori critici di Piersanti, già ad altezza delle recensioni immediatamente successive all’uscita del libro ( F. Brevini, B. Garavelli, A. Gibellini, P. Lagazzi, M. Raffaeli, E. Trevi; e successivamente, R. Galaverni, A Moscè, G. Pontiggia) emerge l’orientamento a una totale libertà di temi e stile e ricchezza immaginativa, fatta molto in sordina, come in un proficuo isolamento, almeno relativamente alle sue prime prove ( la questione è stata anche da me variamente affrontata nell’introduzione generale e nei paragrafi relativi a La breve stagione e a Il tempo differente, in Umberto Piersanti, mito e memoria di un tempo differente, introduzione all’antologia di U. Piersanti, Per tempi e luoghi, a cura di M.Cohen, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1999, pp. 6-60.) in cui si ravvisa lo scarto di autenticità che segna come uno stigma questa esperienza poetica.
I luoghi persi esce nel 1994, alla fine di un secolo eccezionale e babelico: mentre si consumano nell’inanità i giochi pirotecnici di un replicante ‘ Gruppo ‘93’, si estenuano i neometricismi di chi ha sostituito le idee con l’ideologia della forma, in araldica bellettrista; mentre pigolano i nichilismi compiaciuti e minimalisti new age di poetiche ombelicali o chiuse in sé, in asfittiche stanze di nostalgie e fumisterie andate a male; mentre dopo lenta consunzione arriva al grado zero dei suoi prosimetri l’understatement e il basso continuo della Linea Lombarda, l’ultima ancora accertata e l’ultima a capitolare, mentre si spengono infine i blandi fuochi greci di un neo-orfismo mitologico paludato in una dimensione di scuola, congestionato da una letterarietà eccedente. Nella grande sera novecentesca, di una interminabile Dammerung occidentale, I luoghi persi è uno degli ultimi e decisivi libri del secolo, scritto valicandolo, forse, dopo averlo a lungo metabolizzato, comunque decidendo alla fine di non tenerne granchè conto: il suo immaginario di riferimento è altro, e guarda già altrove, a luoghi differenti, a tempi altri, persi in vicende e stagioni che si stagliano in un orizzonte d’attesa più vasto, che appartengono a istanze primigenie e durature, persi appunto, in un tempo lontano nel tempo, dell’anteriorità e dell’interiorità, mossi da una quiddità primaria che ne specifica e certifica essenza e natura, morfologia espressiva o stile.
Nel luglio 1993, sul numero 2 dell’anno II della rivista «Pelagos», fondata e diretta a Urbino nel 1991 da Piersanti, appaiono, accompagnati da una mia nota, due testi che annunciano l’uscita einaudiana. Si tratta de’ La capanna del presepio che chiude la prima sezione del libro, Per tempi e luoghi, sezione che segna il punto di divaricazione e di trait d’union con Passaggio di sequenza (1986): sezione caratterizzata dal ricorso a un endecasillabo disteso, spesso ripetuto come spia nei titoli dei singoli testi, dal timbro inconfondibile ( Di quest’ultima estate che perdura, Muta il mio tempo cambia la vicenda, In tempi diversi sull’appennino, La gente da cui vengo si dissolve, in linea con i titoli più ariosi, con riferimenti precisi ai cicli del tempo e delle stagioni, a vicende e luoghi frequentati, titoli e testi memorialistici e a loro modo elegiaci di Passaggio di sequenza: Figure dell’autunno che trascorre, Sono risceso a ottobre nelle macchie, Per la breve stagione di ritorno, Quando l’ottobre lento trascolora…), componimenti dal passo lungo articolate in campiture di versi o in successioni di strofe dismogenee per estensione che corrispondono a veri e propri salti di luoghi, di tempi, di motivi, rapide e alluse variazioni di situazioni o passaggi di stato, in un continuum di “ affabulazione sonora appoggiata al flusso ritmico” come sottolinea Daniele Piccini, giustamente rimarcando anche come la nuova stagione del nostro sia stata avviata proprio dalle modalità espressive e dalle occasioni di Passaggio di sequenza ( Cfr. D. Piccini, Umberto Piersanti, in La poesia italiana dal 1960 a oggi, Bur, Milano 2005, pp. 329-341). Il secondo testo anticipato sulla rivista, Il passaggio tentato, è anche strategicamente conclusivo della quarta e ultima sezione del libro, Vicende. I due testi di fatto preannunciano l’orientamento stilematico e alcune linee affioranti ne’ I luoghi persi, anticipando ulteriormente due lati di novità che verranno ampliamente ripresi e sviluppati negli esiti successivi: Nel tempo che precede ( 2002) e L’albero delle nebbie (2008). Nella Capanna fa il suo alluso ingresso il figlio Jacopo; una pietas paterna e creaturale traspare dalla dolcezza di fondo con cui Piersanti tratteggia il figlio giocare nella vasca da bagno o nell’allineare sassolini: « era d’ottobre, scivolano le foglie/ e s’incrostano gialle al finestrino/ nella vasca di sopra, biancazzurra/ godevi l’acqua calda e profumata/ e galleggiano i giochi, te li donavo / dopo un lungo viaggio, sulle scale/ offerta ai nuovi giorni/ oggi iniziati»; « alle spalle del ponte raccoglievi / le lunghe brecce bianche / per farne file / appena sbirci / se colui che ti guarda / è ancora accanto»; al figlio si rivolge l’autore con franca lingua di memorie favolose, con intenzioni di amorevole guida paterna: « presto t’avrei detto della neve / l’anno che straripava dai camini / e le strade confuse di barriere / bianchissime muraglie che il fumo attacca»; « d’altre vicende ancora / e più lontane, t’avrei narrato / della gente e i campi da dove vieni / la parte del tuo sangue che non sai». Non è casuale, alla luce delle scelte successive, il fatto che La capanna del presepio ‘ chiuda’ un ciclo di testi segnati dall’endecasillabo piano e pieno: non casuale che il verso qui presenti spezzature ritmiche e appaiano alternati e endecasillabi i versi ipometri quinari e settenari. Una allusione dolorosa nella clausola del testo, «ora so che m’hai tolto / dalle preghiere», non è che una delle varie premonizioni relative al futuro del figlio presenti nei Luoghi. Sarà proprio la dolente paternità dovuta alla malattia del figlio a imporre uno stigma di incomunicabilità e sofferenza alla produzione dell’età matura di Piersanti, e quella da cui verranno i testi più toccanti, di intensa e fragile umanità, dei libri successivi. Sarà questo, incarnato dalla figura monade di Jacopo, il terminus a quo di un tempo che precede la frattura e la ferita dell’essere, e che succederà idealmente, ad essa assommandosi, alla ferita primigenia della nascita, del tempo differente, tempo altro, della differenza e differito dell’infanzia e dell’adolescenza, il serbatoio dei motivi essenziali a cui ha lungamente attinto Piersanti.
Se nella Capanna fa il suo ingresso la figura di Jacopo, venuta a compimento di un repertorio di presenze domestico-familiari declinante prevalentemente al femminile: la madre, le sorelle, la moglie ma anche molte giovani donne a cui vanno le sue attenzioni e i suoi accesi erotismi, e, su tutte, la presenza della nonna Fenica, potente e archetipica figura campeggiante sull’opera come sulla adiacente prova narrativa del nostro, L’uomo delle Cesane (1994), nel Passaggio tentato è preannunciato un altro motivo che riverbererà sui Luoghi e sui libri a seguire: mi riferisco a un dato irrazionalistico e inconscio, che contrasta e coabita infine con la sua educazione laica, razionalista e non fideistica, dato che investe l’immaginario dell’autore a vario grado, e che gli deriva da una cultura popolare, di ascendenza rurale ( rinvio a proposito, e non solo, alle pagine di Emanuele Trevi: Sulla recente poesia: tre libri e un paragrafo sul “ metodo”, in « Nuovi Argomenti» n.2, gennaio-marzo 1995, pp.118-123), nella riemersione dai lacerti o latebre, da una sottotraccia o background di marca feltresca e dell’Appennino centrale, di religio arcaica, precristiana nelle sue modalità e manifestazioni pagane e nel suo diffuso panismo: credenze, magie, pratiche scaramantiche, apotropaiche presenze inquiete e inquietanti di ombre, anime benigne e maligne, maghe, streghe, di esseri mutanti e mostruosi come lo sprovinglo, una enorme anima-ombra nera di cane mutante che si manifesta nell’oscurità e che si aggira per le Cesane e per le campagne urbinati atterrendo donne contadini e pastori. È il variegato, sorprendente immaginario riconnesso a una autentica attitudine alla humilitas, una adesione e aderenza totale alla terra, alle sue manifestazioni, alle sue ritualità, ai cicli delle stagioni, alle vicende di una storia naturale e sociale vissuta e affrontata in un laboratorio di civiltà e natura: la couche, intendo, in cui caparbiamente Piersanti ha edificato la dimora della propria poesia, la ‘casa in fondo al fosso’ nella riserva naturale delle Cesane, attestata in tutta la sua opera e che ne’ I luoghi persi trova la chiarificazione risolutoria. Anche in questa direzione vanno letti i Frammenti di poema, dove assistiamo alla riemersione di una phonè originaria, la parlata urbinate, centroitalica, che presenta frequenti commistioni e contaminazioni con l’italiano, tanto da apparirne, a sua volta, una varietà linguistica: « st’odore», « dop che l’ua era arcolta», « se guardava tutt’i raspi», « se pissicava tutta come i ucieletti», « ‘na volta», «c’era ‘na biscia», « avev’ scritt ‘na lettera ma mi cugina / m’al ragass’ ch’era andato a fè el soldato; / era stesa dentr’ al fieno e c’era n’odore, / l’odore del fieno, / da cl’altra parte / l’odore che lia ci aveva tra le gambe», in un recupero di lingua madre avvertita nel lessico e nella sintassi, che certifica il ritorno ai propri luoghi e tale da autorizzare a coniare una nuova definizione della poesia di Piersanti: poeta neodialettale in lingua italiana. Così, nella splendida Cespi e fiori, di rara competenza botanico-floreale, nella dominazione di erbari, di fiori e piante, per cui Carlo Bo, per primo, ha richiamato al legame di continuità ideale con le Georgiche virgialiane e a una radice orientativamente pascoliana nella descrizione del microcosmo faunistico, gli umili tamerischi pascoliano-piersantiani delle Cesane. Nella puntuale descrizione della natura, campeggiano i movimenti di un Pastore, soggetto archetipico anch’esso, in cui si attua per trasposizione mitopoietica il transfert e la miccia tra mondo di natura e civiltà rurale, istintualità ancestrale e opera di fatica antropologica, dove ai dati di nudità naturalistica subentrano alementi, anche ontologici, di area analogica.
Nella certificazione dei suoi luoghi persi, persi per sempre, perduti nel tempo, sprofondati a ritroso di tempo e memoria nelle epoche e nelle lingue, o come con intelligenza critica chiarisce Massimo Raffaeli: “ la direzione dei versi è al passato ma la dizione è tuttavia al presente; lo stesso titolo che sigla la raccolta più matura e per certi aspetti risolutiva di Piersanti, I luoghi persi , è leggibile alla stregua di una anfibologia: ‘persi’ sta per dispersi, fuori via, dimenticati, ma significa anche perduti per essere ritrovati nella memoria, nella parola che li ridispàme al presente, con fedeltà e ossessione: « io nell’attesa sono come sempre / in giro sui miei colli nella cerchia / e poi vado lontano e qui ritorno»” ( M. Raffaeli, Le parole di Umberto, in « I Quaderni del Battello Ebbro», n. 22 giugno 1999, pp. 32-34), le lalìe del socioletto di appartenenza , recuperate alla memoria, ibridate a una cultura letteraria classica e mai sconfessata o tradita, partecipano a questa fiducia nella ‘tenuta’ del tempo altro, nella sua rituale difesa e nella riattivata attualizzazione temporale. Con I luoghi persi,Piersanti percorre una volta e per sempre le sue ‘strade blu’ consegnandole a una cartografia per i posteri. Nella loro indubbia ricchezza immaginativa e di visione, attestano di un laborioso e fedele percorso di fiducia nella memoria dell’umanità dell’uomo: un antidoto, laico e concreto, preposto dal poeta Piersanti, “ il più importante poeta di natura in circolazione” come scrive con molta cognizione Alessandro Moscè, alle troppe compiaciute sirene à la pàge annuncianti nel Novecento le varie, troppo esibite, propagandate conclusioni speditivamente spacciate per certe: la ‘morte’ dell’arte, la ‘fine’, della storia, un fantomatico e un po’ pretestuoso ‘dopo’ la lirica.

 
 
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