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da Le lucciole nella bottiglia. Il mondo di Umberto Piersanti:

I Natali d'un tempo
Paolo Lagazzi

La fase decisiva dell’opera di Umberto Piersanti inizia (come sanno tutti coloro che amano la poesia in Italia) con I luoghi persi, e si prolunga con Nel tempo che precede. L’albero delle nebbie arriva ora a comporre questo arco creativo nella forma di un grande trittico. Nella raccolta tutti i tempi e gli spazi di una vita s’innervano a vicenda fino a dispiegare una specie di summa di questo mondo poetico, uno struggente condensato affettivo. Forse mai come qui il poeta ci è apparso altalenante tra il presente e il passato, risucchiato dai suoi luoghi e dai suoi momenti, teso a osservarli mentre riaffiorano dalla bruma degli anni e mentre, di nuovo, vi affondano come “uccelli minuti / immersi tra le foglie”. Tutto ciò fa del libro un cammino ininterrotto, un flusso di occasioni, una teoria d’immagini cangianti. Sia che spii se stesso mentre, bambino di tre anni, si avventura “solo dentro l’erba”, beve  “l’aria e la luce”, s’intride del verde com’è la prima volta / nella vita”; sia che torni sui propri sentieri infantili mentre vagabonda con la sorella Anna in un “giorno di primavera / senza una macchia”;¸sia che racconti le passeggiate col figlio Jacopo cercando di condividere la distanza abissale, l’”altrove / sordo e smisurato” in cui lo sigilla la malattia, sempre il poeta ci appare chiamato a testimoniare la vita che si sposta, poiché, essa stessa, è cammino, sebbene nessuno conosca a cosa conduca – se non al buio, al silenzio finale.

Tra questi andirivieni nei paesaggi e negli anni, un rilievo epifanico e sacro assumono le evocazioni dei Natali d’un tempo, scenari di gesti semplici e preziosi, di riti famigliari e di piccoli doni ( addobbi di fili argentati, presepi ricchi di muschio odoroso, cappelletti fumanti preparati dalle donne ) nel cui ricordo un “chiarore” che è pura grazia, leggerezza, incanto. Solo, forse, Truman Capote ha saputo esprimere nel Novecento la poesia del Natale con tocchi altrettanto lustri, palpitanti e fatati. Di ben differente tenore appaiono, almeno a un primo sguardo, i Natali trascorsi dal poeta arrancando sui passi veloci del figlio Jacopo, “viandante senza sosta e senza meta”, angelo della solitudine e del mutismo, “tenace / più d’un vecchio eremita” a inseguire sentieri radicati nello stupore del nulla, nella sgomenta fissità dell’indicibie. In realtà la fiamma dei Natali lontani non è diversa dalla luce vacillante di quelli spesi con Jacopo , se, attraverso i riverberi degli uni e degli altri, , sappiamo riconoscerne la sostanza profonda, quel quid che Piersanti, per pudore, non dichiara mai, ma che si può chiamare solo amore: amore come agape, condivisione, abbraccio, abbandono, comunione di destini. La sola differenza è che quei primi Natali sapevano schiudere delle oasi, delle parentesi di umana bellezza sciolte dalla “catena” del vivere, mentre quelli passati col figlio non sanno arginare la stanchezza che i poeta padre sente gravare sempre più su di sé come una morsa atroce. Nulla come il sentimento della stanchezza può rivelarci a quali prospettive estreme, a quali vertigini dell’essere esposto al caos sia giunta l’anima di un poeta nei nostri anni. Di fronte allo stremarsi dei giorni, il bisogno di tregue che Piersanti confessa è il segno di una bruciatura  radicale dell’anima, di un’arsione in cui non è illegittimo riconoscere un desiderio d’assoluto. Dell’entità di questo desiderio, della sua forza animica e propulsiva ci parla la più recente opera narrativa del poeta, Olimpo, un racconto prossimo, in qualche modo, allo spirito sapienziale – esoterico del Monte analogo  di Daumal, ma scritto con la mano limpida di un autore di fiabe. Il fatto cruciale del libro è la scommessa, osata da due antichi greci, di raggiungere la sommità dell’Olimpo per incontrare gli dèi; ma nella rinuncia a questa impresa, e nel ritorno necessario dei protagonisti agli amori umani e al battito delle cose feriali ( situazione che ricorda una delle poesie più emblematiche dell’ultimo Bertolucci, Verso le sorgenti del Cinghio, nel suo doppio movimento di risalita a delle sorgenti inaccessibili e di ridiscesa al volo “famigliare” dell’esistenza ), Piersanti ci parla della sola scelta praticabile da chi sappia di non poter forzare la siepe che lo separa dall’infinito: la scelta della pazienza, l’etica dell’accettazione. Precisamente di questo si nutre L’albero delle nebbie: di una pazienza che è il rovescio di una segreta passione utopica, di un’accettazione del dolore che è l’altro volto di un disperato bisogno di riconsacrare l’esistenza.

Da una parte il poeta vorrebbe, con le evocazioni della sua famiglia d’origine e di alcuni suoi amori, “bucare” la minaccia del nulla, così come lo scòtano, l’albero eponimo della raccolta, vince col suo colore tra rosso e arancione il muro della nebbia. Da un’altra parte egli continua a confessarci con coraggio di non essere Proust, cioè di non poter sperare di “ ritrovare” davvero il suo tempo fino a sigillarlo in una bolla platonica. Mentre la vita si allontana in fretta ( sempre meno rilievo hanno qui le figure dell’eros ), la memoria vacilla incerta: a momenti di acuta, lancinante visione si alternano ricordi incollocabili nello spazio e nel tempo, “giorni diversi / e paralleli, / né sogno, né vicenda, / non sai cosa”; a illuminanti intersezioni tra i presente e il passato, in cui parrebbe, montalianamente, che qualcosa di decisivo stia per squarciare il velo delle apparenze, si sovrappone una percezione ritornante del mondo come mistero ingovernabile. Malgrado tutto ciò, dalla vita continua a nascere una specie di musica di cui nessuno sa l’origine; così, da bambino, il poeta avvertiva a volte, “tra frasche basse / d’olmo” o in un “ceppo / di vitalba”, “un canto luminoso” di uccelli’ senza riuscire a individuare il nido da cui sgorgava. La passione di Piersanti  è proprio il porsi in ascolto  di questa musica senza luogo; la sua forza è la capacità di restituircela  attraverso e oltre le dissonanze che lo assediano. Tutto ( o quasi ) è ancora ritmo nel suo procedere: giocando di punto e contrappunto sulla tastiera di versi brevi e irregolari, ma non di rado tendenti a ricomporre, o almeno a evocare, la misura dell’endecasillabo e del settenario, il poeta lascia emergere dal fondo del suo batticuore tutta una serie di figure, specialmente botaniche ( la brionia, l’anemone, il fiordaliso, il giglio della sabbia, il tulipano, il tarassaco ,il croco, il favagello… ), che sanno custodire il senso del fiorire come danza di colori, come offerta o rendimento di grazie. Certo, nemmeno i fiori possono far dimenticare a Piersanti il confine a cui è giunta non solo la sua parabola personale ma la storia del mondo: una soglia vertiginosamente sospesa tra l’essere e il nulla, una china sdrucciolevole in cui “non è primavera / e non è inverno”, in cui molti eventi non sono più reali né del tutto irreali. Questa china è una specie di limbo, un orizzote sordo alla speranza, un luogo in cui è altrettanto difficile vivere che morire. Eppure “sempre qualcosa / resta dentro l’aria, nella fuga / dei giorni, nella rapina d’acque / e soli che c’accompagna”: qualcosa che non ha un nome, come certe piante gialle accese di luce, ma per cui vale la pena continuare a camminare, a respirare il profumo umile dei sentieri.

 
 
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